Nel nostro vivere agitato c’è sempre più fretta che diviene ansiosa, angosciante. Si hanno tante cose da fare e non si può far tardi. A volte è giusto quando ci sono scadenze o orari importanti da rispettare. Altre volte ci prende qualcosa come una corrente improvvisa che fa sbattere le finestre, come un fiume in piena, come mare agitato durante una tempesta. Allora cominciamo a correre non come bimbi nell’euforia del movimento ma con una forte inquietudine che ci sconquassa fin dentro l’animo. La fretta è qui ingiustificata o, meglio, lo sarebbe se non ci approntassimo a trovarle una giustificazione. Tutti corrono quindi è d’obbligo che si corra. Non si può indugiare altrimenti si perde la corsa. Ma per cosa? C’è una frenesia collettiva, un perenne movimento ossessivo e spesso, per certi versi, inconsapevole, quasi un automatismo che ci spinge verso il consumo, verso scalate impossibili, senza freni inibitori e come se avessimo paura di fermarci. Tutta questa corsa assume quindi i contorni di una fuga. Siamo in fuga ma da cosa? Dal mondo? Credo di no. Viviamo pur sempre immersi in esso e anche se pensiamo di odiarlo o averne timore resta la nostra casa. È l’altro a farci paura? Anche, ma dall’altro in genere non si fugge: o lo si accoglie o lo si combatte. Fuggiamo forse da qualcosa di più piccolo, che non vogliamo né accogliere né combattere. Qualcosa che forse vogliamo nascondere a tutti finanche a noi stessi. Forse fuggiamo proprio da noi stessi. Dalla nostra miseria. Da ciò che siamo e non vorremmo essere. Da ciò che non siamo e vorremmo essere. Ma non ce ne accorgiamo o, meglio, facciamo in modo di non accorgercene. Perché ciò sia possibile dovremmo fermarci. Fermarsi richiederebbe riflessione, introspezione, porsi domande. Ed è proprio questo che non vorremmo fare. Riflettere potrebbe significare scoprire qualcosa di noi che non ci piace. Una cosa del genere ci farebbe sentire nudi e indifesi. Meglio una patina dorata che dia una parvenza di bellezza e benessere.

  Scrive Nietzsche “…ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. La furia è generale, perché ognuno fugge da se stesso; generale anche il pavido nascondere questa furia, perché si vuole sembrare soddisfatti e si vorrebbe celare a spettatori acuti la propria miseria. Vogliamo sembrare contenti e a nostro agio perché non si noti la nostra condizione umana e tutto di noi rientri nelle convenzioni”

   Sembriamo pacchi di regali, che viaggiano insieme, con una bella carta decorata e nastri d’oro, d’argento o altri colori brillanti, che, finché restano chiusi, si può immaginare contengano doni meravigliosi. Ma dentro potrebbero anche avere doni semplici e piccoli da pensare di farci una magra figura. E in questa fuga fra le strade, fra i carrelli dei supermercati, fra i corridoi dei posti di lavoro ci muoviamo come comparse anonime di un film di cui siamo al contempo anche registi e spettatori. Ma qual è la miseria che vogliamo nascondere? Cosa si cela dietro il precipitarsi indecoroso verso mete prestabilite o senza meta quando non si sa più cosa inventarsi per correre via? È forse la domanda su noi stessi. Chi sono? Cos’è l’uomo? Se ci fermassimo un istante non potremmo non sentire dentro di noi quest’interrogativo. E tale domanda ci insegue, ci bracca. Solo nella fuga da sé, cioè dalla riflessione e dall’introspezione si può avere l’illusione di scampare da essa. Ma quest’illusione può renderci più sereni o ci fa solo perdere il bello dell’esistere? Un tale interrogativo ci spaventa perché tenderemmo a vedere solo un aspetto della realtà: quello che limita. Chi non avrebbe paura di fronte al rischio di scoprire che la propria esistenza è quella di un essere con debolezze? Forse però sarebbe bene chiedersi: saremmo forse meno belli se apparissimo, in dati momenti, non troppo sicuri di noi stessi e con dei limiti? Scomparirebbero allora i nostri pregi, le nostre caratteristiche che ci rendono unici? Sarebbero le nostre stanchezze e distrazioni così vergognose da non lasciarle trasparire e costringerci a camuffarle con finti sorrisi di circostanza? Il nostro tempo sarà stato meno prezioso se ne avremo trascorso una parte senza riuscire a dare il meglio di noi? E cosa sarebbe il meglio di noi? Sembrare sempre in perfetta forma o essere noi stessi in tutto e per tutto, nel bene e nel male? La nostra vita apparirebbe, in questi casi, meno bella e meno preziosa? Ne siamo sicuri?

Donatella Quattrone